#11 GISELLA CHAUDRY

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GISELLA CHAUDRY
Ascoltami. Residui di Sole nell’Atmosfera di Mezzo.
26.03.2019 – 08.05.2019

Testo a cura di Fabio Vito Lacertosa

In occasione dell’undicesima apertura della project room e a pochi mesi dalla fortunata esperienza collettiva di “Quattro equilibri palermitani”, Gisella Chaudry prepara da davidepaludetto | artecontemporanea una mostra personale dal titolo: “Ascoltami. Residui di sole nell’atmosfera di mezzo”.
L’artista siciliana torna così a vestire i panni dell’esploratrice di mondi lontanissimi, cosmi eliocentrici che confinano con il nulla o con le evidenze di un eccesso non quantificabile come il sole.
La presenza del polistirolo è una esplorazione intorno all’ambiguità dell’aggregato, il nucleo granulare-atomico da cui si irraggia tutto, l’attitudine alla coesione e il principio razionale della costruzione in sé. Ma è anche mimesi dei materiali. Quanto del granito del Sinai vi è nel polimero dello stirene, e quanto polimero dello stirene vi è nel Sinai? 
L’idea installativa e scenografica é quella di ribaltare completamente le percezioni sugli elementi costituenti e il senso stesso dello spazio espositivo. Se la sala della project room si presenta solitamente come una sorta di cubo vuoto con un pilastro in mezzo, attorno al quale orbitano le opere, Gisella Chaudry l’ha resa ora labirinto e in un certo senso “incasinata”, protratta in un’esperienza più difficile. Ha disegnato, con lo spazio modulare di questi parallelepipedi, fogli di materiale “illusorio”, una veduta tridimensionale, una città non identificata ma soggetta comunque alle leggi che derivano dal sole e dalla gravitazione. La struttura, inoltre, è sottoposta ad una pioggia di pianetini vaganti che minano quell’essenza chimicamente inerte di cui è composto il prototipo del modulo grigio. Ne danno testimonianza una serie di corrosioni colte nell’atto del compiersi, da parte dei piccoli asteroidi, elementi dalla forma definita, archetipi sferici persino comici nella loro vastità di somiglianze, tra l’hang drum e gli ufo degli Ummo, passando per le coppette e le padelle da cucina. In questa perfetta ragione straniante ricordano gli oggetti dorati, quasi calati dal cielo, di James Lee Byars. La divisione degli spazi, nel rapporto tra il vuoto e il pieno della galleria, lascia poi intravedere delle persistenze architettoniche aggettanti, come simboli tagliati da luce teatrale diretta. Monito morale, iconografia inafferrabile e ritorno al sacro.
Tutte le atmosfere di mezzo sono diaframmi dai confini non lineari. Luoghi dove leggi di universi differenti coesistono e si definiscono in un continuo reciproco commercio, benché di lenta espressione formale. Il fatto che questo scambio sia circondato da enormi vuoti, come in tutte le frontiere silenti, non è il segno di un allontanamento dal centro delle cose o di una freddezza emotiva, al contrario rappresenta una mediazione misteriosa sul mondo, compiuta attraverso il proprio corpo: una intimità intraducibile che si trasforma in pensiero pubblico.
Il tempo, in sostanza, è un oggetto che dipende dallo sguardo di chi lo compone; chi lo riceve viene investito dalla qualità che gli è stata conferita e lo trasforma a sua volta prima di renderlo. E se reclamare l’ascolto è in fondo un modo per esprimere il desiderio di dire profondamente “la Veritàaaa”, la composizione è una forma di rito alto che prescinde dalle frenesie del piccolo umanesimo tascabile. Residuo di luce pura e puramente ingestibile. Se è vero, infine, che ogni artista a suo modo testimonia un pensiero del futuro, l’obiettivo paradossale ma estremamente coinvolgente di Chaudry è – qual frazione di conoscenza alchemica! – l’abrogazione del passato.
Credere nel lavoro, nel continuo contatto con la realizzazione e il disfacimento, sono le chiavi ostinate di un processo che porta all’abbandono del sé, alla perdita di abitudini consolidate. Attraverso la ponderazione, il peso e l’ironia di un immaginario astrattamente cult, l’artista gode dell’oggi come se avesse compiuto un viaggio lontano, segnalando e osservando un’epoca con gli occhi dell’alieno. Viene in mente Mila, la protagonista creata ed interpretata da Coline Serreau ne “La Belle Verte”.
Gisella Chaudry vive a Torino da poco ed è ancora attivo in lei un confronto e un corto circuito architettonico con Palermo, metropoli marittima. Attraverso l’uso dei blocchi di polistirene vi è una moltiplicazione di regolarità ma come volta a depotenziare il concetto stesso di costruzione. Come dice lei stessa: “La regolarità è oggettiva. E’ la pesantezza ad essere illusoria”.
Una struttura pesante che però non pesa niente. Il materiale è anche una forzatura, sincretismo geografico.
Queste costruzioni nascono come Totem dall’atmosfera razionalista, ma possono cambiare aspetto nella stesura all’interno di un luogo. I confini tra improvvisazione e composizione unica sono labili, interessanti, fertili. Vi è dunque una dicotomia tra emozioni fortissime e disposizione quasi fredda dei blocchi.
Il polistirolo permette di non soccombere all’idea logistica di progettazione e le lastre assumono così via via il ruolo di lapidi, altari, tavole.
Nelle prime intenzioni la mostra si sarebbe dovuta chiamare Icaro, in omaggio alla nota più dolorosa.
Successivamente, il senso stesso del volo si è palesato. Icaro, altro non è che una parabola schiacciante dell’ascolto mancato.

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