KIRIL HADZHIEV

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KIRIL HADZHIEV
20.02.2015 – 5.03.2015

Testo a cura di Francesca Canfora 

Sono enigmi visivi e ironici a incuriosire e solleticare lo spettatore, che il più delle volte si avvicina alle opere  di Kiril Hadzhiev con la sensazione di dover risolvere un rebus. 
Sculture in marmo bianco, contraddistinte da un nitore cristallino, accostate o alternate a semplici objets trouvés articolano le argute sciarade che l’artista mette in scena, nell’intento di dare rappresentazione visiva a temi filosofici come a suggestioni letterarie.
Ogni opera racchiude in sé, stratificati in vari layers, molteplici riferimenti a libri, a testi di filosofia come a interrogativi superiori che da secoli attendono ancora una risposta. A dispetto del loro aspetto lieve, quasi giocoso, sono la sintesi e la convergenza di alcune riflessioni scaturite dallo studio e dagli interessi del loro artefice, come anche dalla volontà di fare scultura non nel senso tradizionale del termine, seppur utilizzando ancora nella maggior parte delle opere un materiale classico.
È in questo senso rappresentativo On the concept of Truth, un flessuoso nastro di Möbius sorprendentemente ricavato da un monolitico blocco di marmo, che reca su di sé una scritta:
“- The Truth – it’s like a Möbius strip: it seems obvious at first glance – two sides, two edges, but the closer you look, the more you realize that you’re going in a circle on a strangely one-sided surface that can only exist by moving around itself, a thought that can only postpone, but never reach it’s end – “ 
La contraddittoria geometria della scultura è la parafrasi visiva di un’indagine sul concetto di Verità, intesa da alcune teorie filosofiche come assoluta e incondizionata.
Il paradosso matematico del nastro di Möbius, che presenta un solo lato, anzichè due come qualsiasi altra superficie bidimensionale, viene adottato dall’artista per illustrare come non esista nulla di così definito, certo e indubitabile.
Non esiste il vero o il falso, con distinzioni e contrapposizioni assolute. La Verità non solo è sfumata, ma spesso è irraggiungibile e contorta, così come il percorso da fare per riuscire a leggere, fino in fondo, il testo ivi trascritto. Lo spettatore è obbligato a buffe e tortuose circonvoluzioni per poi essere riportato infine, e inesorabilmente, di nuovo al punto di partenza.
Facendo proprie certe teorie di Nietzsche espresse in “Volontà di Potenza”, l’artista interpreta e mette in scena – e in crisi – il concetto di Verità, intesa con la V maiuscola, trovandone un corrispettivo formale, che costringe a un continuo quanto repentino cambio di punto di vista.
E non è forse lo stesso materiale, il marmo, a mettere in crisi le nostre certezze e convinzioni, nel momento in cui viene utilizzato per rappresentare qualcosa di elastico e sinuoso, cioè quanto di più distante dalla sua natura?
Invisible or Inexistent è l’opera che fa nuovamente proprio questo interrogativo, chiamando in causa il concetto filosofico di cosa-in-sé, di essenza così come viene definita da Aristotele nella “Metafisica”: “Ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra cosa”.
Una vecchia stadera sospesa, nel ruolo di archetipo di una bilancia primordiale, segna il peso di un invisibile -o inesistente?- grave, sfidando il buon senso comune, mentre sul suo piatto non giace altro che una scritta: “the thing-in-itself ” (la cosa-in-sé). 
È come se qui fosse la parola, e per estensione il linguaggio, ad avere più peso nel definire l’oggetto  piuttosto che non la sua “vera” natura, in accordo con il pensiero di molti filosofi contemporanei (tra cui Judith Butler, Jacques Derrida) secondo cui non esiste veramente un’essenza delle cose (uomo incluso), ma siamo noi a fornire di senso tutto ciò che ci circonda.
Il linguaggio crea e condiziona la realtà, la sua percezione e le nostre idee. È uno strumento che se da un lato tenta di descrivere il mondo dall’altro crea inevitabilmente un filtro, aggiungendo un grado di complessità che nell’esperire il mondo non sussiste.
Scomposto nelle sue parti secondo una grammatica visiva, un oggetto semplice e immediato come una bottiglia di latte si trasforma nella messinscena sibillina di Bottle of Milk: un contenitore di vetro vuoto viene unito, o meglio diviso dal suo presunto contenuto free-standing da un isolato complemento di specificazione. Il tentativo di raffigurare il linguaggio, creando una relazione di corrispondenza isomorfica tra enunciato e opera d’arte, nel visualizzare indipendentemente ogni elemento che va a costituire l’oggetto nel suo complesso, ne complica la percezione unitaria, nonchè la comprensione. 
Il linguaggio, visto come una convenzione e non come l’unico modo corretto e valido di descrivere il mondo, venendo ri-convertito dall’artista in immagini crea una sorta di cortocircuito, di andata e ritorno che ne evidenzia le difformità e la distorsione risultante rispetto all’oggetto di partenza.
Essenza e linguaggio sono dunque temi filosofici cari, a cui si vota in più di un caso la scultura di Hadzhiev: esempio ne è anche Concettualizzazione di una pietra, opera che nello stesso tempo rappresenta e descrive se stessa in tutti i possibili aspetti. Un masso di marmo nero, spaccato a metà, svela la sua intima natura ed essenza non solo attraverso il materiale grezzo in sé e per sé ma tramite un elenco di caratteristiche e qualità ad esso associate, scritto nella parte interna della frattura/rottura. 
A generare le opere sono dunque riflessioni congiuntamente agli spunti forniti dai vari reperti scovati, mixati insieme per essere poi ritrasmessi al pubblico sottoforma di busillis.
A Gift for All and None, una vecchia gabbietta vuota per uccelli, infiocchettata da un nastro rosso alla stregua di un dono, con semplicità disarmante raffigura e interpreta la negazione di libertà come un possibile regalo: un’ancora di salvezza per scappare dalla schiacciante sensazione di solitudine e di impotenza che la libertà paradossalmente può provocare.
Ad esserne ispirazione è il saggio “Fuga dalla Libertà” di Erich Fromm, in cui la libertà viene considerata da un lato come un grande valore, dall’altro come un peso insostenibile per la maggioranza degli uomini, che cercano così di fuggirne la responsabilità. È ancora un paradosso a essere rappresentato: l’uomo moderno ha raggiunto la libertà, ma non riesce a usarla per realizzare pienamente se stesso perché ne è disorientato.
Il regalo, facendo nel titolo il verso a un testo* di Nietzsche, nel suo indirizzarsi a tutti e a nessuno evidenzia l’ambivalenza del dono, in teoria poco auspicabile quanto poi, nel risultato, una comoda fonte di sollievo per chi vi si adagia.
Sempre nel solco combinatorio che somma scultura a objets trouvés si colloca Untitled: una sorta di pugnale/scalpello sospeso a pochi millimetri dalla sommità di un uovo, macrogamete diversamente fragile poiché scolpito nel marmo.
Un’alea minatoria grava sul simbolo della vita e della creazione, anche se non è dato a intendere alcun ulteriore indizio per la soluzione dell’ennesimo enigma. 
Questa volta il finale rimane aperto e l’interrogativo perdura, affidandosi per l’interpretazione al singolo spettatore. 
La scelta di non fornire alcuna spiegazione univoca e preconfezionata diventa così una trasposizione tout court, un’estrema sintesi, del pensiero di Nietzsche, per cui la volontà di potenza è la physis dell’uomo, cioè la sua condizione naturale, che lo spinge sempre a creare un senso nel Chaos di forze che è il mondo.

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