VALERIA VACCARO

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VALERIA VACCARO
08.10.2015 – 06.11.2015

Testo a cura di Francesca Canfora

Pallet e casse da trasporto in disuso e bruciacchiati, relitti contemporanei ormai familiari, propri di una quotidianità cui ormai siamo avvezzi, sinonimo di desolazione, abbandono e spreco, anziché in depositi e magazzini occupano indebitamente spazi espositivi. Decontestualizzati rispetto ai luoghi a loro propri, tali oggetti di na- tura prettamente utilitaristica, servi muti dell’industria come dell’arte, vengono offerti allo spettatore come opera, dove il contenitore inaspettatamente si propone come contenuto.
Di primo acchito, senza dubbio alcuno, è lecito pensare di trovarsi di fronte a uno scontato ready-made, eredità di duchampiana memoria che riesce ancor oggi, a ormai un secolo di distanza, a indignare e suscitare diffidenza nel pubblico più tradizionalista.
Ma è proprio sul tavolo del misunderstanding e dei luoghi comuni dell’arte contemporanea – incomprensibile ai più- che gioca la ricerca della giovane scultrice torinese Valeria Vaccaro, con una tanto raffinata quanto discreta ironia.
Non è concesso alcun indizio manifesto o evidente, ed è la sorpresa e lo stupore finale dello spettatore più accorto a essere il risultato ricercato e voluto.
A materializzarsi sotto i nostri occhi sono oggetti che a un primo sguardo risultano nella loro evidente ovvietà in legno, resi ancor più veri dalle screpolature brunite e affumicate, causate dall’azione del fuoco, che recano in alcuni punti.
É solo in seguito a una più approfondita indagine, dettata dalla curiosità o dal caso, o grazie allo sguardo stupito di chi ha già compreso, che si scopre l’inganno.
Il presunto legno si rivela infatti gelido e inaspettatamente duro al tatto, come colto da un inatteso rigor mortis, sensazione che crea un cortocircuito, mettendo in forse i sensi e la percezione dello spettatore, che esperisce con le mani una verità altra rispetto a ciò che vede. Se il legno in parte combusto, di cui – apparentemente – sono costituiti i pallet e le casse, risulta privo di calore non è certo perché la fiamma sembra essersi ormai estinta da tempo, lasciando solo tracce carbonizzate.
Quei manufatti industriali di serie B, tanto semplici e grezzi quanto indispensabili, rivelano solo in seconda battuta una natura più nobile e complessa, cioè di essere scolpiti nel marmo con un’esecuzione di una perizia tecnica sconcertante.
Ma il fil rouge sotteso a tutte le opere di Valeria Vaccaro non è tanto, venatura dopo venatura, la riproduzione esatta del materiale ligneo quanto la combustione, ovvero l’agire del fuoco.
Ogni scultura è come se fosse un’istantanea di quel processo, dove l’attimo viene colto e reso perenne nel suo divenire: un istante fugace che viene congelato attraverso un materiale considerato da sempre eterno, cioè il marmo.
Ad ardere sono oggetti mediocri, senza valenza estetica alcuna, ma il processo di trasformazione che li investe non si limita solo a una mutazione di materia ma si pone su un altro livello, donando loro un valore, poiché si tratta di opere d’arte.
Fuoco e combustione sono infatti portatori di una molteplicità di significati simbolici, riconducibili a due fondamentali aspetti: il fuoco da elemento di distruzione e giudizio è nello stesso tempo metafora di rinnovamento.
Post fata resurgo – dopo la morte torno ad alzarmi – recitava il motto dell’Araba Fenice, uccello mitologico noto per il fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte.
Simbolo di morte e resurrezione questa leggendaria creatura diventò, tramite il fuoco, il simbolo della rinascita spirituale, nonché del compimento della “Trasmutazione Alchemica”, in alchimia il processo misterico equivalente alla rigenerazione umana.
L’azione distruttiva delle fiamme si propone qui allo stesso tempo come rigeneratrice e sinonimo del gesto creativo dell’artista-demiurgo.
Venature, sfumature e texture sono riprodotte in modo così reale da ingannare chiunque: solo il tatto può rivelare l’inattesa algidità marmorea, che si pone in netta antitesi con ciò che viene rappresentato, cioè il fuoco e lo stesso legno, materiale “caldo” per antonomasia. Gli oggetti „bruciati“ rappresentati non sono perciò simbolo di negazione, ma di positiva trasformazione: contrariamente al loro aspetto consunto e logoro, sublimano verso uno stato superiore e si fanno metafora di vita nuova e migliore.
Altrettanto spiazzante, e densa di inquietudine, è l’installazione “That wich remains”, dove a essere rappresentato è il cliché, l’immagine tradizionale di una vecchia cameretta di bambino, con arredi e giochi in legno appartenenti a un’epoca ormai già lontana, in netta antitesi con l‘ormai definibile „Era della plastica“.
L’occhio più esperto viene ancora ingannato e anche qui, complici bruciature e trame lignee fedelmente riprodotte, si tratta di nuovo di marmo sapientemente lavorato.
Giocattoli desueti, come un cavallo a dondolo o un triciclo di evidente manifattura artigianale, ci parlano infatti di un tempo che va scomparendo e sbiadendo: se da un lato le tracce della combustione sono indizio della memoria e dei ricordi che tendono a consumarsi e a sparire, testimoniando l’azione dello scorrere del tempo, dall’altro il marmo rappresenta l’imperativa volontà di mantenerli in modo imperituro.
Mise en pièce delle angosce e dei turbamenti che accompagnano il passaggio dall’epoca spensierata dell’infanzia al mondo adulto, “That wich remains” dà corpo alle ansie e alle inquietudini, alle emozioni negative generate dalla perdita delle sicurezze proprie del nido, di quel ‘mondo protetto’ che avvolge i primi anni di vita.
La cameretta, in stato di degrado e abbandono, rappresenta il dolore e le difficoltà connaturati alla crescita: nel periodo di transizione che è l’adolescenza il passato non viene dimenticato, ma “sacrificato”, in nome di ciò che verrà.
O ancora, per estensione, „ciò che rimane“ conduce il pensiero a un’epoca che non sarà più, dove ciò che veniva costruito manualmente da abili maestranze è destinato progressivamente a scomparire, ormai inesorabilmente sostituito dalla produzione seriale industriale. É interessante notare come il linguaggio espressivo che emerge da ogni lavoro di Valeria Vaccaro, sia scandito da una successione incalzante, a più riprese e più livelli, di ossimori visivi e tangibili.
Concetti opposti e contrari vengono accostati in un unico oggetto, generando così impreviste forme di paradosso: il legno diventa freddo, il marmo brucia e si carbonizza, la cassa da trasporto non contiene nulla ma risulta essere l’opera d’arte stessa.
Ogni scultura, rappresentazione concreta della figura retorica dell’ossimoro, contraddice un termine con il suo opposto, va contro le regole e il buon senso comune generando così un cortocircuito di significato, un senso di sorpresa e spiazzamento.
Chi si trova al cospetto di una serie di pallet accatastati, o appoggiati con noncuranza lungo una parete, presentati in qualità di opera d’arte, convinto inevitabilmente di trovarsi di fronte all’ennesima astuta trovata legittimata solo in nome dell’arte contemporanea, viene invece successivamente colto da un senso di straniamento, tra stupore e ammirazione, scoprendo ciò che mai più si sarebbe aspettato, cioè che si tratta di tutt’altro: una scultura in marmo.
E’ come se venisse qui fatto un percorso a ritroso dalla produzione in serie e dalla riproducibilità tecnica teorizzata da Wittgenstein verso la riconquista dell’aura e dello status di opera d’arte, cercando di restituire addirittura unicità e valore a prodotti industriali di bassa lega. Assolutamente in controtendenza è evidente in Valeria Vaccaro un singolare recupero di quell‘abilità tecnica e manuale, ormai dichiaratamente trascurata dalla contemporaneità in favore dell’idea e del concetto.
E se lo spettatore di fronte ai pallet o al cavallo a dondolo tira dritto, poiché pensa a un ormai inflazionato ready-made, a maggior ragione quando scopre che in realtà sono sculture torna sui suoi passi e si ferma, rimanendo in primo luogo stupito -e forse imbarazzato- di essere stato vittima del negativo preconcetto, purtroppo ancora molto diffuso, che la gran parte delle persone ha nei confronti dell’arte contemporanea.

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