#12 ANDREA FAMÀ

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ANDREA FAMÀ
“Famà chi?”
14.05.2019 – 20.06.2019

«Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo – così Umberto Eco spiegava Zygmunt Bauman – ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve. Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro».
Nel sistema dell’arte contemporanea, l’idea di mostra-evento asseconda la memoria labile dell’osservatore, sgretolando e paradossalmente appiattendo le differenze stilistiche e curatoriali delle scene espositive. Un pubblico dell’arte che ammira le maschere ma che non si pone la questione di soffermarsi e ragionare, opponendo tempo “naturale” della riflessione a tempo “velocizzato” della fruizione: in questo preciso momento storico si gareggia per una nuova realtà – corrente, evento, risultato – verso cui si è ancora ciecamente sospinti. Nel frattempo, incoraggiando la parola non costruita né in pronuncia né in scrittura, la sensibilità artistica spesso viene inaridita dalla critica silente e distruttiva: una critica da secchezza del cuore mondana, frivola e degradante, che infrange il senso dell’opera e la visione estetica che quest’ultima veicola. 
Andrea Famà non si oppone al meccanismo cinico concependo un metodo di analisi parallelo, bensì ne illustra le discrepanze pagando il visitatore con la stessa moneta. La sua installazione site-specific esplicita l’intelligente principio dell’ironia come contraddizione consentita e dell’autoironia come assoluzione che si chiede a se stessi in nome della consapevolezza. Non rinegoziabile, l’autoironia viene indirizzata a un pubblico esterno, deridendo le proprie mancanze e fornendo l’occasione di ottenere di conseguenza l’empatia dei presenti – ed è possibile supporre che sia una forma di aggressione, di ritorsione dell’artista contro i partecipanti. Lo sguardo sullo spazio espositivo è volutamente disturbato e al contempo attirato da una colonna: vi si leggono una serie di frasi offensive, sarcastiche e caustiche che (forse) sono state pensate e dette proprio dai visitatori stessi. Camminando, il pavimento che l’artista ha ricoperto con gesso e cemento, inevitabilmente si creperà e si sfonderà: un segnale della presenza dell’osservatore e un simbolo di rottura del sistema – la mostra diviene infatti una performance od opera in fieri, creata dall’osservatore che intraprende un percorso di morte dell’opera delineato dall’artista. Una metafora dinamica dell’intervento dei fruitori che, nel contesto della creazione, non possono fare a meno di abbracciare un forte sentimento di distruzione. È un gioco di sguardi speculari, di mosse autodifensive e di inversioni di ruoli; che lasci sbigottiti, disgustati o indifferenti, sarà pur ai fini di un nuovo lascito dalle conseguenze inedite – di una nuova opera che dimentica la precedente e che, mordacemente, nasce già in frantumi.

Personale a cura di:
Federica Maria Giallombardo
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