DANIELE ACCOSSATO

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DANIELE ACCOSSATO
14.05.2015 – 04.06.2015

Testo a cura di Francesca Canfora

Sulla materia grezza, magmatica e imperfetta, si delineano sparuti cenni di geometrie ed emergenze urbane, primi abbozzi di solchi planimetrici in cui il marmo ritrova il suo nitore.
Pare questa la solida metafora di una progressiva conquista, da parte della civiltà, di aspre e selvagge zone montuose, in cui il reticolo viario, suddividendosi in molteplici ramificazioni invasive, arriva a domare il brullo paesaggio.
Ma Pietra Miliare diventa anche simbolo del gesto creativo dello scultore, che impone ordine e forma al materiale grezzo, come l’uomo in passato, costruendo e coltivando, dominava terre selvagge e sconosciute.
È la geometria, antico strumento per descrivere e rappresentare il mondo e la realtà, in cui forma e ordine trovano la massima espressione, a cui attinge Daniele Accossato nel prendere come riferimento della sua ricerca la figura pura e ideale dell’icosaedro.
L’icosaedro appartiene alla serie dei cinque solidi definiti platonici, ovvero poliedri convessi regolari: il tetraedro, l’esaedro, l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro.
La suggestiva regolarità e complessità di questi solidi geometrici li ha resi fin dall’antichità oggetto di studi filosofici: nello specifico Platone considerava tali poliedri regolari come tramite fra l’entropico mondo dei fenomeni naturali e l’iperuranio, zona al di là del cielo in cui risiedono le idee immutabili e perfette, raggiungibili soltanto dall’intelletto.
Secondo il filosofo greco tali forme sono il collegamento tra il mondo umano e una dimensione metafisica, puramente spirituale e intellettuale.
Nel “Timeo”, dialogo scritto intorno al 360 a.c. che maggiormente ha influito sulla filosofia e sulla scienza posteriori, Platone attribuisce a ogni poliedro un elemento: al tetraedro il fuoco, al cubo la terra, all’ottaedro l’aria e all’icosaedro l’acqua.
L’icosaedro nella cosmogonia dell’artista si tramuta in Geohedron, ovvero matrice, principio generatore nella sua attività demiurgica, e si costituisce come embrione di innumerevoli mondi possibili.
Come l’acqua venne attribuita da Platone all’icosaedro, in Geohedron le piatte superfici si ammorbidiscono e si increspano sino a liquefarsi, lasciando affiorare mari e oceani: il masso squadrato, algido e adamantino, sembra percorso dal ribollire di una sorta di brodo primordiale, prologo di qualsiasi forma di vita, pronto a sbocciare in un neonato microcosmo.
L’interesse per i solidi platonici influenzò artisti e intellettuali rinascimentali, tra cui Keplero, che nella sua opera “Mysterium cosmographicum”, in termini diversi rispetto a Platone, riprende l’indagine attorno al senso dei poliedri regolari in riferimento alla struttura del mondo.
L’astronomo sostiene che i poliedri platonici siano strettamente connessi ai pianeti, e di conseguenza al creato, in virtù delle armoniose proporzioni che possiedono: 
«La Terra è la sfera che misura tutte le altre. Circoscrivi ad essa un dodecaedro: la sfera che lo comprende sarà Marte [nel senso che contiene l’orbita, che allora ancora riteneva circolare, del suo moto attorno al sole]. Circoscrivi a Marte un tetraedro: la sfera che lo comprende sarà Giove. Circoscrivi a Giove un cubo: la sfera che lo comprende sarà Saturno. Ora inscrivi alla Terra un icosaedro: la sfera inscritta ad essa sarà Venere. Inscrivi a Venere un ottaedro: la sfera inscritta ad essa sarà Mercurio. Hai la ragione del numero dei pianeti.»
L’idea rinascimentale di una corrispondenza tra solidi platonici e armonia dell’universo, ripresa ancora da Keplero nell’opera successiva “Harmonices Mundi”, induce a immaginare il Geohedron come possibile mondo in fieri e l’installazione Geohedromo come una galassia, una porzione di universo in trasformazione continua, dove tanti microcosmi differenti convivono: precipitati o forse semplicemente giacenti a terra, in attesa di una scintilla vitale, dalle superfici aride e spoglie come meteoriti; semielevati, in cui rigore e linearità vengono interrotti dal sorgere improvviso di frastagliate catene montuose, primi cenni di evoluzione; sospesi, galleggianti nell’etere e irti di aculei urbani, nel pieno del loro sviluppo e fioritura.
Un sistema in continua metamorfosi, dove i mondi sono parte di un ciclo vitale: ogni pianeta vive diverse fasi, dalla condizione di seme ed embrione allo stadio di germoglio, per sbocciare poi nella sua fase matura e – forse – implodere e cadere per ricominciare tutto da capo.
I geoedri sono luoghi dove regna l’antitesi, in cui ragione e caos, fisica e metafisica si incontrano. 
Come afferma l’artista: “Qualcosa di inizialmente indefinito, informe, intacca il solido, cresce e si espande. Forse un giorno ingloberà e soffocherà il poliedro da cui ha avuto origine. Avvicinandoci, guardando meglio, riconosciamo in questo corpo in espansione delle forme. Le forme della natura e dell’umanità. Montagne, città, metropoli, campi, deserti.” 
Ma in realtà sono la natura e il proliferare urbano a diffondersi, corrompendo le squadrate superfici del solido, o forse avviene il contrario? Non è dato sapere il verso del processo, posto che sia unico e costante: l’unica certezza, nella convivenza di due elementi apparentemente opposti, è forse la strenua ricerca – senza fine – di una qualche forma di equilibrio.
Quello che può essere inteso come un ciclo vitale, rappresentato in forma statica e concreta da Geohedromo, viene invece restituito dinamicamente, includendo il fattore temporale, nel video Geohedron 0.
È un germinare architettonico, ininterrotto e progressivo, un’evoluzione di stato che raggiunge un punto tale di saturazione oltre il quale non è più data alcuna informazione precisa: una sorta di vibrazione radioattiva azzera tutto, e il processo ricomincia.
Nessun giudizio di valore, nessun indizio si può cogliere da parte dell’artista sulla positività o negatività di una condizione rispetto all’altra: è semplicemente la rappresentazione di quello che è un processo continuo e circolare.
Se le molteplici facce del geoedro sono terreno fertile su cui misteriosamente proliferano città o catene montuose, nulla è stato detto sinora sul suo interno.
Enigmatico e iridescente, custodito e protetto da una teca, Icosahedron pare allo stesso tempo feticcio e talismano: un oggetto magico, chiuso ed ermeticamente impenetrabile, non ascrivibile ad alcuna precisa collocazione temporale.
Appeso sullo sfondo, complementare ad esso, un complesso elaborato grafico, un vero e proprio progetto, ne disvela le interiora, dense di meccanismi e ingranaggi di svariato tipo.
Non si può sapere se ciò corrisponda effettivamente a verità, dal momento in cui l’interno è inaccessibile, ma il progetto, per sua natura antecedente l’oggetto, si pone qui nelle vesti di garante di autenticità.
Se il poliedro, nella sua forma compiuta ed evoluta, equivale a un microcosmo, al suo interno scopriamo invece, grazie allo schema tecnico dell’artista-demiurgo, un caleidoscopio ingegneristico di frammenti meccanici e non, un vero e proprio macrocosmo tecnologico onnicomprensivo.
A ben guardare possiamo riconoscere parti di motore di auto e aerei, l’obiettivo di una macchina fotografica, una videocamera di sorveglianza, un amplificatore, emergenze architettoniche, un microfono, un trapano, il grilletto di una mitragliatrice, una scheda madre e il tamburo di una pistola.
Icosahedron racchiude dentro di sè qualsiasi prodotto dell’ingegno e dell’invenzione, diventando metafora dell’intelletto, cioè dell’intangibile collegamento tra la realtà e il puro mondo delle idee di cui è capace l’essere umano.
Trasposizione e simbolo del meccanismo più misterioso di tutti, quello cerebrale, l’icosaedro possiede così l’incommensurabile potere di generare “mondi”: che siano reali o inventati, prodotto della scienza o dell’arte, del raziocinio o della fantasia poco importa, poichè rappresenta l’incessante istinto alla creazione proprio dell’uomo, da sempre fonte di inesauribile stupore.

 

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