FERDI GIARDINI | CON COSA E CON CHI EBBE TUTTO INIZIO NEGLI ANNI 80

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FERDI GIARDINI
“Con cosa e con chi ebbe tutto inizio negli anni 80”
25.06.2019 – 21.09.2019

Testo a cura di Fabio Vito Lacertosa

2 Fe + 3 H2O → Fe2O3 + 3 H2 è quanto di più critico e militante io possa scrivere sul lavoro di Ferdi Giardini.
Ma le convenzioni, generalmente, suggeriscono di spiegarsi meglio e così, con il dubbio di tradire la complessità della ruggine e per onorare un gioco formulato nella triplice valenza materiale, simbolica e linguistica, proverò ad interrogare il lavoro dell’artista Ferdi Giardini, tacendo dell’alchimista, del designer e del didatta.
Cinque grandi lavori ambientali e due quadri di medie dimensioni, risalenti agli anni ’80, seguono il percorso di Via Artisti, scoprendosi ad uno ad uno così come le sale della galleria. Qualcosa di familiare li avvicina e li raccoglie, sette frammenti di un racconto distopico che trae i propri principi in tempi non lontani e non alieni. Elementi redivivi, ritornanti, che viene spontaneo interrogare nella mimesi realistica dei materiali metallici, nei cartonati, nei pigmenti vibranti e quasi radioattivi, nei siliconi e nelle plastiche ricoperte di vernici scure che popolano, di fatto, l’immaginario dell’artista e della sua città. Nella Torino di “con cosa e con chi ebbe tutto inizio negli anni 80”, Ferdi Giardini si muove senza soluzione di continuità tra scenografia e pittura, oscilla dialetticamente tra progetto e capriccio, struttura e segno, cervello e mani. Se da una parte queste sculture fatte-di-dipinti, o più banalmente questa serie di ready made ricostruiti e ingigantiti, sembrano indagare il ‘monumentale’ in qualità di ineluttabilmente friabile, pulverulento e umano, dall’altra, esse paiono celebrare una sorta di coerenza delle corrosioni (e delle ossidazioni) come passaggio vitale, quasi culturale, in un risultato che spesso la critica riconosce come archeologico. Il campo indagato dall’artista, infatti, che per ragioni anagrafiche ha un piede in occidente e uno ad est, è un inventario di città underground, post-lineari e fumettistiche, i cui oggetti simbolici sono chiavi di accesso a distruzioni e ricostruzioni così tangibili da sembrare vissute davvero. Una reversibilità dei processi che è un modo altro di dire nostalgia. Per Nicola Savarese nostalgia è “passione dei ritorni”. Per Ferdi Giardini essa è viaggio nel tempo attraverso i materiali, restauro nei due sensi. Il nuovo torna al vecchio ed il vecchio torna nuovo, in un processo alchemico che si muove per piccoli passi segreti ma in qualche modo decisivi, pesanti. E la naturalezza di pensare tra le righe, di giocare con modelli di grossi mondi possibili, è osar chiedere ai materiali risposte spirituali.
Una mostra necessaria. Laddove Ferdi Giardini non sa e non vuole fermarsi dentro una storia già raccontata, sono gli altri che devono dunque  recuperarne i periodi, dividerli e riportarli al loro posto nella storia (maiuscolo). Recuperare iperboli e ridar loro un habitat è come rimettere in acqua una tartaruga lungamente curata. Vi è un classico, proverbiale momento di spaesamento nel rilascio che colpisce, una sorta di imbarazzo dell’animale nobile. L’istante in cui la paura cede il posto alla bramosia dello spazio aperto, alla tentazione liquida di sparire. La vertigine e la barbarie. “Con cosa e con chi ebbe tutto inizio negli anni 80”? Con quel fenomeno culturale e politico che in una mostra collettiva al Castello di Rivara del 2018 abbiamo definito Gotico Industriale.  “Forme nate in deserti urbani, nere e solidificanti come la pece, rugginose come l’aria dei battilamiere e filologicamente anarchiche come una serie di rivolte senza apparente organizzazione.”
Nel 1988 Piero Gilardi scrive: “il lavoro di Ferdi Giardini scaturisce da una città difficile e opaca, di una difficoltà che tendenzialmente non affina ma piuttosto ostacola.”
Ma FG si disegna eccentrico, elegante al pari di un ricco commerciante delle Fiandre in viaggio nel Belpaese, creando un corto circuito e una distanza tra sé e le opere. Dice di non vivere per l’arte, di non essere spinto da alcuna necessità viscerale alla pittura e alla scultura anzi, parole sue: “con metodo distaccato, complessivamente severo, eseguo”.  In realtà l’intero teatro di frammenti e arti industriali che mette in scena, gli consente di dipingere-dipingere-dipingere con la tipica vis dell’atto spontaneo, recuperando persino alle superfici delle forme spurie di espressionismo astratto. L’approccio alla superficie è dunque una lauda alla pittura, ma è sempre effetto collaterale, accidente rispetto all’istinto naturale di produrre manufatti, cose.
Ferdi Giardini sforna costantemente oggetti, ma esse sono catene di oggetti-metafora che spingono la ricerca sempre più lontano, in un vortice incessante. Nel 1986, Mirella Bandini scrive: “attraverso mezzi apparentemente semplici, questo nuovo artista potrà condurci, in un attesa tensionale, là dove inizia il territorio del meraviglioso.”
Il territorio delle crepe, delle ruggini, delle corrosioni, diventa il territorio delle porte, delle strade, delle navi. E se è vero che, come afferma Lucilla Saccà che: “il vasto parco degli oggetti d’uso non sono però vissuti nel momento della loro piena funzionalità, ma nei tempi successivi, quando ormai inutilizzabili vengono abbandonati”, è anche vero che l’abbandono e la corrosione rappresentano l’esaltante passaggio dell’aria dentro le cose, dentro i materiali. È il mostro meraviglia del buco, è il carapace senza midollo, cosa triste, se vogliamo, ma è poi quello che il resto del mondo “chiama farfalla”.
Fe2O3 
La ruggine di partenza.

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