KIRIL HADZHIEV
KIRIL HADZHIEV
06.05.2021- 05.06.2021
Testo di Fabio Vito Lacertosa
Kiril Hadzhiev torna con una personale da davidepaludetto |artecontemporanea dopo sei anni, quanto mai interessanti per tracciare i segni del passaggio dell’artista da una scultura “concettuale” ad una pittura “gestuale”. Come il fiume che, a partire dalla sorgente dell’idea, muta dolcemente e radicalmente fino a valle, così la scintilla della creazione si lega con il fango e dà origine alla figurazione. Per l’artista bulgaro le figure sono sagome che emergono come elementi dello spirito, umanoidi tremuli che si animano e si incarnano in corpi/corrente, angeli/tronchi. Soggetti che campeggiano in mezzo alla scena e pare che assecondino segrete leggi naturali. In realtà sono ultracorpi che l’artista muove attraverso la ricerca di una naïveté impossibile. Se da una parte vi è l’enigmista che usa i materiali con la distanza del burattinaio, dall’altra c’è il pittore dalla sensibilità notturna e tormentata, amorosa, piena di demoni sensuali attaccati alla punta del pennello.E se la scultura chiedeva allo spettatore di “avvicinarsi alle opere di Kiril Hadzhiev con la sensazione di dover risolvere un rebus” (F. Canfora, 2015), la pittura chiede di non risolvere proprio nulla ma di abbandonarsi all’apparizione in quanto tale – magmatica e segnata di urgenze. Nell’abbandono lo spettatore è sempre da solo, in cerca di un passaggio verso l’altrove, verso una “quarta parete” e una “quarta dimensione” tra l’animale e l’umano, dove l’animale può sbucare e finalmente sbuca in veste di fiera. La iena sapiente e indomita, come totem silenzioso, ci ricorda tempi lontanissimi di reciproca profonda inimicizia.
Ma il tutto è anche fiaba, metafora dell’iniziato. Così, mentre il senex lavora nel mondo rovesciato come una spia, il puer, sensuale demiurgo del qui ed ora si domanda: noi siamo animali?
E coglie il vero conflitto, non dichiarato, dei nostri tempi.
Il rapporto tra le dialettiche bestiale/umano; animato/inanimato; uomo/insetto; maschile/femminile, ci permette di riscontrare una tensione verso soluzioni di artisti come Romina Bassu, Nicola Samorì, Sergio Ragalzi, Paolo Leonardo o il più giovane Rosario Vicidomini. Il tutto affiancato ad un senso di ammirazione per le avanguardie storiche.
Ma – attenzione – non si interpreti il senso ancora vivo per le avanguardie come una appendice di “classicismo”, bensì come una reazione ad un dato che proviene dalla mera cronologia della Bulgaria. In regime di realismo socialista, infatti, l’avanguardia “storica” potè riprendere a vivere pienamente soltanto negli anni ’90. La formazione dell’artista è dunque segnata da questa strana rivoluzione traslata e la sua conseguente esperienza nell’apprendistato.
Esito pittorico è una sorta di scapigliatura raffreddata e metallica, benché fluida. Mercurio liquido sparso in un vortice di segni. Le sagome sono tratteggiate con una ricerca cromatica quasi fauve, ma quanto mai costruite in un senso differente da ogni forma di stilizzazione, ondeggiando tra naturalismo e maledettismo. Si riscontrano frammenti a-temporali di DNA nord-europeo e tardo-ottocentesco, minerario e luddista. Tuttavia oggi è diverso: la tecnologia avanza, gli esseri ne sono interamente avvolti come da un fumo invisibile. Essi vengono colorati di uniformità, di carbone, di terrore silenzioso. L’artista diventa demiurgo/metallurgo/webmaster. Tecnico e poeta. Lavoratore e oziatore di futuri incerti. Gli arti (s)composti, e come incelofanati da un film protettivo, corrono lungo l’inserto tecnologico cyber. L’arte come evento intossicante, quando è immersione dal tutto nell’uno, ed elemento di ebbrezza quando è emersione dall’uno al fuori.
Nell’esasperazione degli elementi, la timidezza diviene un valore biologicamente aggregante, come se la ritrosia sia la risposta delle particelle alla dispersione.
Ci troviamo di fronte ancora una volta alla disgregazione dell’Io, alla combinazione di un espressionismo solo un po’ addolcito da un manga occasionale, da un Bacon velato di saudade, da un Lucien Freud ancora non perfettamente adulto, da una Cecily Brown deprivata di tutto ciò che non sia “il cogliere” il lato della forma nell’atto stesso del formarsi.