SERGIO RAGALZI | VIRUS 1988

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SERGIO RAGALZI
“VIRUS, 1988”
29.01.2019 – 23.03.2019

Testo a cura di Fabio Vito Lacertosa

Il 29 gennaio, presso la galleria davidepaludetto|artecontemporanea, si è inaugurata la mostra personale di Sergio Ragalzi, con 3 quadri e 5 grandi sculture dalla serie Virus, realizzate nel 1988 in occasione di una grande esposizione al Castello di Rivara – Museo d’Arte Contemporanea.
Se non fosse che l’idea della morte prevalga su tutto, come un a parteteatrale, e occupi lo spazio delle cose umane come un suggeritore che condiziona le espressioni dei vivi, la frase “seduto con gli occhi sbarrati aspettando il nulla”, di Sergio Ragalzi, potrebbe suonare come il senso di una meditazione. Ma sono parole combattenti, nonostante le apparenze, già solo per il fatto di essere pronunciate a denti stretti, occhi sbarrati, oscurate dal peso incombente della gravità. Fatiche individuali o per dirla con un Battiato anni ottanta: “malesseri speciali”. Episodi kafkiani che estendono il loro raggio fino al nocciolo delle tensioni comuni, politiche, universali. Di conseguenza Sergio Ragalzi, che da una parte gioca un ruolo da eremita e dall’altra partecipa di una città produttiva, prova fino in fondo la partita dell’artista puro, costruendo e ricostruendo figurazione intorno a totemche potremmo definire primari. La sua ricerca fugge la ‘pena’ della serenitàe ostruisce gli ingranaggi del desiderio, si attacca visceralmente alle sorgenti della creazione evocando spettri, feticci, delitti erelitti sessuali. Tratta il tema dell’erigersi, o meglio del sopravvivere eretti. Del bipedeeroicoche resiste, malgrado la gabbia disagiante della condizione di animale. Sergio Ragalzi dichiara guerra e si dichiara guerra, al sé quadrupede, al sé insetto disturbante e al sé ombra atomica. Non post-atomica, si badi, ma pre-atomica, immersa cioè nella condizione di distruzioneche logora per inedia e non per avvenuta esplosione. Nella stessa condizione del paranoico che teme di essere derubato da un ladro che non arriva mai, Sergio Ragalzi opera in una condizione di cecità atterrita, perfettamente comprensibile da tutti e per questo paradossalmente resiliente.
Come scrive Rudi Fuchs, le opere di Ragalzi “appartengono alla terra come esseri molto vecchi […], scavate nella pittura, esumate da una pittura pesante e lenta come terra: figure che emergono dalla terra come corpi morti – neri come la Storia” (R. Fuchs, 1986).
Gli anni ottanta sono per tutti il decennio del ritorno alla pittura, talvolta alla terra, all’uso del saporelocale come fonte di energia primitiva, alla citazione e alla valenza espressiva del rapporto con il tratto-colore. In Ragalzi, nonostante la presenza e la centralit
à di tutta questa pittura, si percepisce invero il riflesso di certo minimalismo oggettuale. Tuttavia il suo è un minimoche non nasce dal grado zero o dal nulla, al contrario si rivela solo dopo un azzeramento violento di presenze materiali precedenti. Si è detto, negli anni, che l’artista torinese non abbia partecipato alla temperie del citazionismo e che questa attitudine gli abbia conferito un certo statusdi inattualità. Presumibilmente è vero, ma a patto di ammettere la sua ricerca pittorica come definitiva, come fenomeno di ossessione pura, seriale, alienata, come ricerca autonoma di materia prima concettuale, alimentata da un rancore ontologico che sembra di rimando connotare tutta la Torino degli anni ‘80. In questo modo egli finisce per rappresentare un prototipo post-poverista, figurativo, neo-umanista, che si fa testimonianza di un mutamento dei rapporti della città con la sua madre-matrigna Fiat. Il modello in questione lo abbiamo chiamato gotico industriale, ad indicare la persistenza simultanea di vertigine e barbarie, il sentirsi stranieri in patria, l’agire mediato dai (non) colori, dai (non) ritmi, dai (non) materiali dell’industria e dal suo portato dialettico di abisso/altezza.  Più che un incontro con l’astrazione, dunque, si intravede la necessità di non aderire ad alcun clima post-moderno. Il suo segno esprime conseguentemente la necessità di un violento abbattimento di ogni forma decorativa transitoria. Ogni elemento infiammabile viene gonfiato, carbonizzato e poi di nuovo fissato nella memoria in forma di fantasma abbrutito e perdente, grottesco.  Da qui l’impossibilità di percepire il nostro come un attore del tragico puro. Sorge dunque un’esigenza di connotarlo in qualità di maestro anarchico dal sorriso beffardo, demistificante, che, paradossalmente, per troppo rispetto del tragico ne fa sberleffo, carbonella, frammento di futurismo solitario. Virus è proprio questo: l’emersione di valori binari in una dimensione oggettuale pura, urna cineraria e sagoma bidimensionale, installazione o pittura definitive che testimoniano il passaggio intermedio tra uomo e insetto. Una rappresentazione generativa di un incontrollabile apertura alla pittura in quanto segnale, o come dice Achille Bonito Oliva “l’indicazione di un pericolo a vista dichiarato apertamente e silenziosamente”.

 

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