SIMONE BENEDETTO

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SIMONE BENEDETTO
27.03.2015 – 16.04.2015

Testo a cura di Francesca Canfora

Forse non a caso viene affidato alla scultura, alla concretezza della materia, il compito di restituire visivamente lo scollamento, proprio della contemporaneità, tra reale e virtuale, fulcro attorno a cui ruota gran parte della ricerca di Simone Benedetto.
L’intento è di fornire exempla tangibili per dare corpo a ciò che accade ogni giorno, in ogni momento della nostra vita, in relazione al web e alle nuove tecnologie, e proprio per questo destinato a essere da noi ignorato, vittime di una sorta di assuefazione.
Più che uno sguardo critico verso il presente è la volontà di condividere una presa di coscienza che induce l’artista a mettere in scena le contraddizioni, le distorsioni e le problematiche della società moderna. 
La rete e la connessione perenne, se da un lato hanno permesso evoluzioni fino a poco tempo fa inimmaginabili nella comunicazione, dall’altro l’hanno resa impropriamente il centro dell’esistenza di ognuno di noi. Nell’illusione fittizia di poter interagire sempre e con chiunque, abbattendo confini spazio/temporali, perdiamo infatti reale contatto con chi è a noi vicino.
La tendenza a rifugiarsi e ad appartarsi nel web, come evasione alla complessità della vita, è una sindrome definita come net-dipendenza, o meglio on-line addiction, ormai riconosciuta a livello psichiatrico dal 1995: il solipsismo telematico induce in modo ossessivo-compulsivo a eleggere la rete come luogo di rifugio, creando o accentuando inevitabilmente difficoltà comunicativo-relazionali a livello sociale.
In tale contesto il cellulare – ormai oggetto-feticcio della nostra epoca, responsabile di aver reso il web prêt-à-porter – si trasforma nelle opere dell’artista in un buco nero, un mefistofelico aggeggio che divora, in modo inquietante e sempre maggiore, il nostro tempo e la nostra attenzione, e di conseguenza la nostra libertà di azione e di pensiero.
Emblematica in questo senso è (l’opera) Together Alone, che ci pone di fronte a una solitudine al plurale. Due bambini giocano insieme senza nemmeno guardarsi, vicini ma divisi da una barriera invisibile, frapposta tra di loro. Se una volta erano la televisione o i videogames, oggi a esser l’oggetto del desiderio di un qualsiasi bambino è lo smartphone, diventato per chiunque una irrinunciabile e onnipresente appendice.
Ansiolitico multimediale, che riduce la solitudine mantenendo continuamente presente anche ciò che è assente, relega sempre di più su un piano virtuale i rapporti interpersonali, rendendo superflua l’interazione fisica e reale tra individui.
Traslitterazione del limaccioso pantano tecnologico da cui siamo fagocitati è lo schermo semiliquefatto di uno smartphone extrasize, da cui tentano la fuga, con disperato e inutile sforzo, umane figure stravolte dal terrore.
Le opere della serie Coltan Escape nascono da un sempre più urgente bisogno di fuga dalla rete e dalla sovraesposizione mediatica in cui siamo perennemente immersi: un’esigenza individuale, personale dell’artista ma nello stesso tempo indubbiamente specchio di ciò che è percepito come un disagio sociale più ampio e allargato.
Ma il titolo di questa serie contiene un altro indizio, il termine coltan, che ai più suona come misterioso e ignoto, e che porta con sé un altro livello di lettura, affrontando temi di carattere sociale non così noti all’opinione pubblica mondiale, perché non divulgati, se non occultati, dai mass-media.
Il coltan è un minerale, una materia prima, che viene utilizzato dalle industrie per la costruzione di componenti elettronici di cellulari e computer.
Nelle miniere congolesi, da cui viene estratto il coltan, vengono schiavizzati e sfruttati ogni giorno migliaia di giovani e giovanissimi, costretti a lavorare come minatori in condizioni al limite dell’umano.
Il traffico di coltan, a causa della forte richiesta del minerale e di un aumento del suo prezzo del 600% in 4 anni, è finito in mano a guerriglieri locali, autorità corrotte, multinazionali occidentali e organizzazioni criminali internazionali, privando il suo mercato di qualsiasi regola.
Le multinazionali dell’elettronica come anche chi, in modo indiretto, acquista l’ultimo modello di smartphone, contribuiscono a mantenere l’Africa in una situazione così compromessa e incontrollabile dettata esclusivamente da interessi economici e giochi di potere. 
Coltan Escape significa perciò anche il rifiuto di accettare determinate ingiustizie cercando di divulgare attraverso l’arte, ove possibile, una maggiore informazione e sensibilizzazione al riguardo.
Ma le insidie della rete sono molteplici e spesso invisibili. 
Pochissimi sono coscienti del fatto che, in qualsiasi tipo di interazione on-line, vengono infatti subdolamente intercettati e catturati flussi ingenti, ininterrotti, di dati, vitali per qualsiasi ricerca di mercato.
Identity for Sales illustra in modo sintetico e immediato, inequivocabile, questo traffico di informazioni che attraversa internet in modo sotterraneo e impercettibile.
Sono persone prigioniere in teche trasparenti, esseri umani stoccati in casse accatastate come in un deposito, ciò che mostra l’opera a un primo sguardo.
Ma la scultura muove dal figurativo, da una visione concreta, quasi terrorizzante, per comunicare in realtà qualcos’altro, di più smaterializzato. 
Sono le nostre identità ad essere trattate alla stregua di merce di scambio: i nostri gusti, le nostre preferenze, i nostri ricordi, i nostri dati personali. Sono tutte informazioni che riguardano la nostra vita privata, che ogni giorno con leggerezza e inconsapevolmente riversiamo nel web.
Ignari delle conseguenze sono in pochi a chiedersi il destino di queste banche dati, spontaneamente alimentate da noi ogni giorno nei vari Social Network. 
Facebook, Instagram, Twitter concedono delle impostazioni sulla privacy con cui poter controllare la condivisione dei contenuti ma sono – per assurdo – liberi di riutilizzare gli stessi, attraverso una licenza d’uso da noi sottoscritta tramite la registrazione, per ricavarne danaro. I dati possono essere dunque raccolti, memorizzati, elaborati e utilizzati dalle varie società titolari, ma non solo: possono essere concessi anche a terzi come sottolicenza.
Ma banalmente esistono anche tipi di software, definiti spyware, che sono atti a raccogliere informazioni riguardanti la nostra attività on-line (siti visitati, acquisti eseguiti in rete etc) senza un diretto consenso. 
Molti programmi free download celano in realtà software di questo tipo: all’apparenza gratuiti sono ripagati attraverso un’invasione della privacy dell’inconsapevole utente. 
Questi dati sono paragonabili a merce, anzi rappresentano una vera e propria miniera d’oro, poichè tracciando le abitudini di navigazione, in qualsiasi ambito, sono utili nell’orientare ad personam e in modo mirato le pubblicità in rete e non solo.
Le opere di Simone Benedetto dunque vogliono lanciare un messaggio e nella fattispecie dare un segnale di allarme, dove però il fine ultimo non è tanto il formulare uno sterile giudizio sulle criticità del presente quanto la divulgazione e il raggiungimento di una consapevolezza collettiva.
“La possibilità di aggregare e analizzare grandi quantità di informazioni sta cambiando il mondo. Il mito secondo cui esiste uno spazio virtuale e autonomo dove è possibile avere più privacy dalle istituzioni sociali e politiche è morto. In un mondo in cui i dati sono merce, non c’è legge che possa difendere la libertà di internet. Serve una visione più nitida dell’apocalisse che ci attende per poter comprendere il bizzarro linguaggio della “sovranità dell’informazione” e affrontare le tentazioni del consumismo informativo.”  
Simone Benedetto

 

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